15 AGOSTO
Assunzione della Beata Vergine Maria
Solennità
dal Martirologio Romano
Solennità dell’Assunzione della Beata V. Maria, Madre di Dio e del Signore nostro Gesù Cristo, la quale terminato il corso della vita terrena, fu assunta in cielo in anima e corpo. Il Papa Pio XII solennemente definì il primo novembre 1950 questa verità di fede ricevuta dalla tradizione della Chiesa.
15 agosto 1423
Tra lo stupore di tutto il Portogallo, dopo essere rimasto vedovo, San Nonio Alvares Pereira abbandona tutte le sue ricchezze e veste l’abito Carmelitano nel Convento del Carmine di Lisbona, fondato da lui stesso qualche anno prima. Scegli lo stato di fratello donato dedicandosi ai lavori più umili del Convento. Si chiamò Nonio di Santa Maria.
15 agosto 1561
Nella cappella del Santo Cristo della chiesa di San Tommaso dei Domenicani di Avila in Spagna, Teresa de Ahumada, mentre riflette sui peccati che lì aveva confessato le apparve la Vergine Santa: «fui presa da una rapimento… mi sembrò di vedermi rivestire di una veste bianchissima e splendente… Dicendomi che la fondazione da me desiderata si sarebbe fatta e che in essa il Signore e loro due (Maria e Giuseppe)…, e che già suo Figlio ci aveva promesso di stare sempre con noi» (Vita 33,14).
15 agosto 1567
Nella città di Medina del Campo in Spagna Teresa di Gesù, fonda il secondo Monastero sotto il titolo di San Giuseppe. Teresa di Gesù era partita, con un gruppo di sette monache, da Avila il 13 agosto. Con tre o quattro carri carichi di monache, roba, mobilia e utensileria indispensabile, accompagnati da un buon gruppo di conducenti, ha inizio la prima avventura che si ripeterà ben diciassette volte, per fondare nuovi Carmeli. Le pioniere erano: Maria Bautista di San Giuseppe (Ocampo), Anna degli Angeli (Gómez), Agnese di Gesù (Tapia), Anna dell’Incarnazione (Tapia), Teresa della Colonna (Quesada), Isabella della Croce (Arias), tutte alla prima esperienza come fondatrice. Dopo una sosta ad Arévalo, giunsero a Medina del Campo dove, il 15 agosto, Teresa di Gesù inaugura il nuovo Carmelo. È il primo dopo San José di Avila. A Medina incontra Juan de Santo Matía, studente a Salamanca, da poco ordinato sacerdote e gli propone di fondare un Convento di Carmelitani con lo stesso spirito che anima la comunità di San José di Avila.
15 agosto 1568
Nella città di Valladolid in Spagna, Teresa di Gesù, fonda il quarto Monastero sotto il titolo della Concezione di Nostra Signora del Carmine. È in questa circostanza che Teresa di Gesù introduce Juan de Santo Matía nello stile di vita, fraternità e ricreazione che ha avviato con la sue compagne. Alla fine di settembre Juan parte per la fondazione di Duruelo e rivestendo il saio di scalzo che la Madre Teresa stessa gli ha confezionato assumerà il nome di Giovanni della Croce.
15 agosto 1572
La Beata Anna di San Bartolomeo (García Manzanas) emette la professione religiosa tra le Carmelitane Scalze del Protomonastero di San José in Avila in Spagna. Teresa di Gesù l’aveva presto stimata e presa come assistente e compagna di viaggio nelle molteplici fondazioni, per ordine della stessa imparò quasi prodigiosamente a scrivere. È tra le braccia di questa affezionata amica e compagna che la Madre Teresa volle morire ad Alba di Tormes.
15 agosto 1627
A Comisio in Sicilia fondazione del Monastero delle nostre monache sotto il titolo della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo.
15 agosto 1642
A Slane, nei pressi di Dublino, in Irlanda, muore martire lo studente corista Angelo di San Giuseppe (George Halley), nato a Herefordshire verso il 1622 in Inghilterra. Vestì l’abito del Carmelo il 5 maggio 1540. Durante una persecuzione contro i cattolici fu preso e gettato in carcere, dove vi rimase a lungo. Liberato dal carcere, mentre fuggiva in terra di cattolici fu sorpreso presso il castello di Slane (Dublino), e non volendo rinnegare il cattolicesimo, fu condannato alla fucilazione. Non essendo morto in quella pena, fu finito a colpi di spada.
15 agosto 1670
A Modica in Sicilia fondazione del primo Monastero delle nostre monache sotto il titolo di San Martino vescovo; il secondo (1698) fu fondato sotto il titolo di San Francesco Saverio.
15 agosto 1672
Nella chiesa di San Rocco in Torino, la Beata Maria degli Angeli (Marianna dei Conti Fontanella) fa la Prima Comunione. Parroco era don Antonio Malliano.
15 agosto 1757
Nella cappella del Monastero benedettino di Santa Apollonia in Firenze, Santa Teresa Margherita del Cuor di Gesù (Anna Maria Redi) fa la Prima Comunione.
15 agosto 1891
Nella Parrocchia di San Martino in Kinseca a Pisa il Servo di Dio Raffaello Carlo Rossi è ammesso alla Prima Comunione essendo sacerdote don Cesare Bersanti.
15 agosto 1909
Il Beato Isidoro Bakanja muore, dopo oltre sei mesi di indicibili sofferenze, a Busira nell’attuale Zaire, in Africa. È stroncato dalle torture subite a seguito di una pesante fustigazione, per non aver voluto togliersi lo scapolare della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, che infastidiva il suo datore di lavoro. Prima di morire aveva affermato: «Se morirò pregherò molto per lui». È martire dello scapolare. Aveva appena 20 anni!
15 agosto 1936
La Beata Maria Sagrario di San Luigi Gonzaga (Elvira Moragas y Cantarero), Carmelitana Scalza del Monastero dei Santi Anna e Giuseppe di Madrid, all’alba del giorno della Resurrezione di Maria, è fucilata nel Prato di Sant’Isidoro. Era in abiti borghesi e in tasca portava lo Scapolare del Carmine.
NARRAZIONE DEL BEATO TRANSITO DI ISIDORO BAKANJA
patrono dei giovani d’Africa
Introduzione
L’anno dell’Incarnazione del Signore Nostro Gesù Cristo 8 o 15 agosto del 1909 Isidoro Bakanja entra nella vita. Il Beato transito avviene a Busira, dopo oltre sei mesi di indicibili sofferenze, stroncato dalle torture, per non aver voluto togliersi lo scapolare del Carmelo. Aveva appena 20 anni!
Lavorava come Domestico
Bakanja è rientrato nella sua regione di origine. Vorrebbe lavorare presso un bianco. Il suo amico Boyoto, operaio alla SAB e poi catechista a Isongo, lo mette in guardia:
– Bakanja, non seguire questo bianco a Ikili, ne avrai solo sofferenze… Questi bianchi non amano la gente semplice… Per te che sei cristiano sarà ancora peggio: questi bianchi non amano i cristiani!
– Come sai, replicò Bakanja, che questi bianchi non amano i cristiani?
– Quando lavoravo a Bongila, riprese Boyoto, c’era un cristiano, Pierre Yanza, che ci insegnava a pregare. Noi eravamo ancora tutti pagani e il nostro padrone montò su tutte le furie contro Pierre perché ci riuniva per pregare insieme. Gli proibì formalmente di continuare a riunirci per pregare.
Allo scadere del contratto Bakanja decide di lasciare Mbandaka e di risalire il fiume Ruki. Non vede l’ora di tornare al suo villaggio natale, tra la sua gente. Sfortunatamente il suo villaggio è fuori mano e molto lontano da una missione. Bakanja si stabilisce allora a Busira. Lì può incontrare ogni tanto dei missionari in viaggi pastorali. Suo cugino Camillo Boya lo ospita gratuitamente. Bakanja non è un ozioso, cerca lavoro e s’impegna come domestico presso un certo Sig. Reynders, soprannominato Lomame, che gestisce una piantagione.
Bakanja ha appena preso servizio quando il suo padrone riceve una nuova destinazione. La compagnia SAB lo designa come responsabile di una piantagione a Ikili, divenendo aggiunto del Sig. Van Cauter, chiamato Longange. Durante il viaggio per la nuova destinazione, sostarono a Bomputu dove il domestico Boyoto Antonio, che non era ancora cristiano, cercò invano di dissuadere Bakanja d’accompagnare il suo padrone nell’interno del paese.
– Il mio bianco non è cattivo, risponde deciso Bakanja. Non ho motivo di abbandonarlo.
– È affare tuo Bakanja. Credimi, i bianchi che sono nelle fattorie dell’interno non sono proprio raccomandabili e vogliono solo domestici e operai poveri e ignoranti. Tu hai lavorato a Coquilhatville presso lo Stato, tu hai visto troppo, hai ascoltato troppo; tu ne sai troppe per loro e non sarai proprio il benvenuto! Te lo ripeto, non vogliono che operai senza esperienza. C’è ancora dell’altro che aggrava il tuo caso: tu sei cristiano. Come potrai vivere presso gente che non può sopportare i cristiani?.
Gli avvertimenti di Boyoto, anche se ripetuti, non scuotono la fiducia di Bakanja verso il suo padrone Lomame. Parte con lui verso Yele. Cosa ha da guadagnare o da perdere? Bakanja ha in sé lo Spirito di forza e di saggezza che gli ricorda le parole di Gesù: «Non temete quelli che uccidono il corpo, ma quelli che possono uccidere l’anima».
È disprezzato perché cristiano
I rapporti tra il padrone bianco e il suo nuovo domestico si fecero subito tesi. Ecco alcuni passi di testimonianze di persone che conobbero da vicino Bakanja.
– Quanti servi aveva Lomame?
– Due: Bakanja ed io. Lomame era venuto da Busira portandosi con sé Bakanja; ingaggiò anche me quando passò a Bomputu.
– Hai mai sentito dire che Bakanja avesse rubato del vino a Longange?
– No, non ho mai sentito dire questo; non conosco questo fatto.
– In ogni caso è a causa di un furto che Longange fece fustigare Bakanja?
– È impossibile! Se Bakanja avesse rubato qualcosa, tutti lo avrebbero saputo!
– Bakanja ha voluto per caso approfittare di una delle concubine di Longange?
– No nel modo più assoluto. Non ho mai sentito dire che Isidoro abbia molestato una donna!
– Bakanja è stato per caso impertinente verso Longange?
– Ancor meno!… Isidoro lavorava bene!
… Parlava poco e non avrebbe mai protestato contro le direttive di un bianco.
A Ikili, Bakanja continua a servire il suo padrone con deferenza. Quando ha modo, e se qualcuno lo desidera, lui insegna a pregare il buon Dio dei cristiani. Il suo padrone Lomame un giorno gli dice:
– Se vuoi pregare, fallo nel tuo cuore, ma che nessuno qui ti veda!
L’osservazione finì lì e Bakanja poté dedicarsi alla preghiera e specialmente alla recita del Rosario che portava sempre in tasca. Le cose vanno diversamente con Van Cauter, detto Longange, dal quale anche Lomame dipendeva. Dal suo arrivo, Isidoro divenne subito oggetto di sarcasmo e di vessazione. Bakanja se ne lamenta con Iyongo, il domestico di Longange:
– Longange mi detesta perché sono cristiano. Una volta mi ha visto pregare il rosario nell’aranceto e mi ha detto: «Non voglio vedere quello strumento là; rimettilo nel tuo baule. Stai qui per lavorare non per biascicare preghiere. Detesto gli uomini che se la intendono con i missionari. Non sono più uomini, sono bestie!».
Bakanja sopporta pazientemente i capricci e la collera di Longange. Ma la pazienza ha un limite. Bakanja desiderava vivamente ritrovare la pace del suo villaggio e della sua gente. Sogna il suo fiume; sogna di essere un abile pagaiatore sull’acqua, sogna di lanciare il ghiaccio o gli ami, di tirar le reti piene di pesci e ascoltare le risa gioiose dei fanciulli che sulla riva aspettano il ritorno dei pescatori. Come sarebbe bello sgranare le sue Ave Maria all’armonia dei palmizi che vibrano con la brezza della stagione secca, o al ritmo della pioggia che batte sulla copertura di foglie delle capanne nelle quali grandi e piccini si stringono attorno al fuoco!
È per questo che Bakanja si presenta al suo padrone e gli domanda:
– Bianco, fammi una lettera di licenziamento!
– Non ti scriverò alcuna lettera di licenziamento Tu sei uno di quelli del Buon Dio vero? Chiedila a lui? Io non te la do. Poi Longange disse a Lomame:
– Fai scomparire questo servo.
Le settimane passano. Alla fine del mese di gennaio 1909, Bakanja e Iyongo accompagnano i loro padroni a Bonjoli dove Longange interviene per aiutare un capo di Ikili a vendicare la morte d’una delle sue donne: Loanga. È proprio a Bonjoli, presso Nkengo che gli avvenimenti precipitano e per Bakanja prendono una piega tragica.
Scende la sera, Iyongo, Bakanja e Mputu il cuoco, si preparano al loro lavoro ordinario: preparare i letti dei bianchi, le zanzariere, chiudere le finestre, riscaldare l’acqua per la doccia, cucinare e servire la cena. Durante il servizio a tavola Longange scorge lo Scapolare al collo di Isidoro. Gli dice:
– Bakanja, levati quell’aggeggio dal collo… È una cosa disgustosa. Non voglio più vedere questi strumenti dei monpère (missionari) in casa mia.
Bakanja torna in cucina senza rispondere. Racconta il fatto agli amici; quel giorno non ebbe altre conseguenze. S’addormentò pregando e con lo Scapolare al collo.
Lo scapolare della Madonna
La collera di Longange era scaturita dal fatto che Bakanja rifiutasse di togliersi lo Scapolare. Portare lo Scapolare era suo diritto. Nessuno, nemmeno un bianco poteva impedirgli di ascoltare la propria coscienza. Quanto ha detto il padrone incollerito testimonia del coraggio e della dignità di Bakanja.
– Cos’è questa roba? gridò Longange. Come? Non ti avevo detto di levarti quell’aggeggio? Perché non hai obbedito? Non te lo vuoi levare? Aspetta, ne vedrai delle belle.
Era il mattino del primo febbraio, sempre alla fattoria di Ikili, là dove Longange era padrone dispotico e violento. Durante la colazione Longange vide ancora una volta lo Scapolare sporgere dalla camicia sbottonata di Bakanja. Longange si adirò, e ordinò di infliggergli 25 colpi di chicote.
Con umile sottomissione Bakanja sopporta l’immeritata punizione. Pensa che la frusta non sia così dolorosa quanto invece togliersi lo Scapolare. Egli è sempre più risoluto a non staccarselo mai dal collo. Non importa se viene frustato.
Il silenzio di Bakanja esaspera Longange che conclude:
– Non c’è niente da fare con questo cane di cristiano; lui mette in dubbio la nostra autorità. Se questo tale resta ancora qui, tutti, garzoni, operai, anche la gente dei villaggi, si metteranno a pregare invece di lavorare!.
Da questa riflessione odiosa si deduce quanto il gestore di quella agenzia commerciale estera d’Ikili fosse settario. Era questo il motivo per cui alcuni missionari non collaboravano facilmente con alcuni loro compatrioti.
Boyoto aveva avuto ragione nel mettere in guardia Bakanja contro la mentalità di certi bianchi che vivono in foresta. Le previsioni pessimistiche di Boyoto sembravano avverarsi.
I testimoni interrogati al momento delle varie inchieste condotte dal P. Louis Witte, al momento dei fatti, non erano ancora cristiani. Essi non avevano ancora avuto l’occasione d’incontrare un missionario perché la missione più vicina si trovava a circa 400 km. da Ikili. Questi testimoni ascoltando e riportando le parole astiose di Longange si domandano; «Cosa significa questa parola monpère?».
Nella piantagione si sparge la notizia che Longange ha fatto frustare Bakanja perché la sera precedente avrebbe rovesciato il vino sulla tovaglia. Iyongo nega questa versione:
– Di questo vino versato non ne so proprio nulla!. Conosco bene le azioni di Bakanja perché lavoravamo insieme nella cucina!
Al processo Van Cauter asserì di aver inflitto a Bakanja una sola volta 17 colpi di chicote perché aveva commesso due furti: uno a scapito suo, l’altro di un suo amico bianco. In ogni caso i testimoni di questa prima flagellazione affermano che Longange non disse mai apertamente che puniva Bakanja per una sgarbatezza o un furto.
Iyongo nella sua saggezza indigena asserisce che a Bakanja nulla sarebbe accaduto se non fosse stato cristiano. È allora il fatto di vedere un cristiano come suo domestico che accende il furore di Longange e lo spinge ad uccidere Bakanja. Ascoltiamo la riflessione piena di candore di Iyongo che il P. Louis trascrive nel dossier del 3 ottobre 1913:
– Spesso ho sentito Longange vociferare: «Qui io non voglio persone dei monpère!. Se ne scopro uno l’ammazzo!». A me ha detto: «Se tu vai dai missionari, io t’ammazzerò; ti taglierò la testa». A quel tempo io non sapevo cosa fosse la religione, ignoravo tutto circa la preghiera e circa i missionari. Per questo motivo chiesi a Longange: «Longange cosa significa monpère? Voi in Europa avete monpère?». Mi rispose «No, da noi non si conoscono! È una cosa dei tempi passati! In Europa siamo riusciti a farli scomparire!». Ma io mi chiedevo: se monpère è qualcosa dei tempi passati e qualcosa di cattivo, perché allora Bulamatari non li ammazza e perché li lascia venire qui?… Non potevo credere a quanto Longange diceva e non potevo accettare che monpère significasse nullità, come asseriva Longange.
Mputu, il cuoco, interrogato anche lui, rileva l’ignoranza religiosa dei testimoni:
– Solo Isidoro era cristiano a Ikili, noi non sapevamo allora cosa volesse dire essere cristiano. Longange chiamava sempre Isidoro «animale dei monpère». Noi non sapevamo cosa significasse monpère, non ne avevamo mai sentito parlare. Quando Isidoro fu fustigato noi pensavamo che la furia di Longange fosse provocata da quel pezzetto di stoffa (lo Scapolare del Carmine) che Isidoro portava sempre attorno al collo. Ma «pregare», «un cristiano», monpère erano per noi dei termini sconosciuti in quel momento.
Agli occhi di questi testimoni non cristiani Bakanja appare persona degna, corretta, dolce di carattere ma forte nelle sue convinzioni. La sua indefettibile fedeltà alle promesse del battesimo e la sua professione di fede si nutrono con la preghiera e la recita del Rosario. Essa è concretizzata inoltre dallo Scapolare del Carmine che porta al collo. Da esso Bakanja non si separerà mai anche a costo della sofferenza e della morte.
Frustato a sangue
La libertà di un uomo vale più che la sua vita. La storia del martirio di Bakanja dimostra chiaramente come sia stato flagellato a causa della sua fede e come lui preferisca morire piuttosto che rinunciare alle proprie convinzioni religiose.
Dall’interrogatorio di Iseboya, guardia armata di Longange:
– Mettiti giù per la chicote, ordinò Longange a Bakanja.
– Perché vuoi fustigarmi? Io non ho rubato; non ho dato fastidio alle tue donne.
– Chiudi il becco, animale dei monpère, rispose Longange. Ti pesto perché tu vai insegnando le preghiere dei monpère a tutte queste bestie dei miei operai e garzoni e anche alla gente del villaggio; se questa cosa non finisce, qui non lavorerà più nessuno per andare dietro a queste storie dei monpère!
Longange mi ordinò:
– Iseboya, fagli sentire la chicote!
Ma io rispondo:
– Non posso, mi fa male il braccio!
Mi ribatté:
– Vai a cercare Bongele!
Sulla veranda, ben riparata dal sole di mezzogiorno, Van Cauter (Longange), Reynders (Lomame) e Giret (Mabelu) si scambiano le ultime notizie e sorseggiano uno whisky. Nella cucina i domestici si danno da fare. Bakanja ha sparecchiato la tavola, i suoi compagni lavano le stoviglie. Anche per loro il caldo è cocente e desiderano riposarsi. Bakanja ama questo momento tranquillo, per ritrovarsi solo con Dio e Maria sua Madre. Come d’abitudine, prende la strada dell’aranceto. Prega: «Padre nostro… sia fatta la Tua volontà… perdona le mie colpe… come io perdono a chi mi ha offeso… Mio Dio aiutami a capire questi bianchi!. Perché mi proibiscono di pregare?… Santa Maria, prega per noi ora e nell’ora della nostra morte… ». Le «Ave Maria» scorrono lentamente.
La vista di Bakanja in quest’ora calda della siesta, ricorda a Longange la scena del giorno prima. Nella sua mente corrono brutte idee: Quest’uomo crede di essere più forte di me, il padrone della piantagione! Cosa sta facendo, solo là!. Vuol ridersi di me?. O forse vuole recarsi al pontile per denunciarmi al Sig. Grillet, l’ispettore commerciale della SAB atteso da un momento all’altro? Non può essere che per le cose accadute ieri!
Longange allora comanda alla sentinella Iseboya di chiamare Bakanja che rispettoso si presenta:
– Mi hai chiamato bianco, eccomi.
Alla presenza di altri bianchi, Longange vomita ancora una volta il suo rancore per i cristiani e per quanto riguarda la religione. I suoi compagni ascoltano impassibili; lo conoscono e, come i neri, anch’essi lo temono. Bakanja tace. Lui è grande e nobile, uomo fedele alle sue convinzioni. Per la fede è preparato a tutti i sacrifici senza curarsi della propria persona.
Sotto il tetto della veranda c’è una chicote secca e indurita fatta con pelle di elefante. Era rotta, Longange la riparò con due chiodi ricurvi le cui punte rimasero sporgenti. È il momento di usarla, pensò; toglierà a questo cane di cristiano la voglia di pregare ancora! Longange consegnò la terribile chicote a Bongele:
– Falla sentire a quel tale!
Bongele si rifiuta:
– Colpire con questa chicote? e per quale motivo?
– È affare mio, gridò Longange, qui non voglio gente che se la fa con i monpère!
Gridò ad Isidoro di mettersi giù; e lui forte della sua innocenza non batté ciglio. Allora Longange gli si avvicinò come un demonio, senza preoccuparsi dei curiosi che intanto erano accorsi al luogo del dramma. Si scaraventò sopra Bakanja e indicando lo Scapolare gli disse:
– Cos’è questa roba?. Cosa ti avevo detto?. Lévatelo subito dal collo!
Isidoro non batté ciglio. Allora Longange gli strappò violentemente lo Scapolare e lo gettò al cane che lo ridusse a brandelli sul prato. Afferrato poi Bakanja per la nuca lo precipitò a terra e ordinò alle sue due sentinelle Iseboya e Bolonge di tenerlo fermo uno per i bracci e l’altro per le gambe. A Bongele comandò ancora di flagellare il povero Bakanja, ma si rifiutò:
– Mi rifiuto di colpire con questa chicote con dei chiodi appuntiti.
Questa esitazione esasperò Longange:
– Non fare storie; qui sono io il padrone. Sono cose che riguardano me.
Comincia per Bakanja un lungo calvario che lo porterà alla morte e alla gloria.
Volendo risparmiare Bakanja, Bolgele impugnò la chicote dall’estremità dei chiodi, tenendoli chiusi nel suo pugno, e cominciò a colpire. Longange notò subito il sotterfugio e pretese che colpisse con la parte dei chiodi. Bongele ha pietà di questo suo sfortunato fratello nero e percuote piano.
– Non così urlò Longange, dai più forte!
Ed entrò in casa per prendere il fucile.
– Se non dai più forte, sparo a tutti e due!
Solo minacce?. Neanche per sogno!. Longange era capace di farlo. All’inizio i chiodi scalfirono leggermente la pelle, ma presto ne strappano dei lembi. Le cosce e la schiena del martire sono ridotte a carne viva, il sangue scorre e schizza dappertutto.
Quando Bakanja si contorce per il dolore, Longange gli mette il piede sopra per tenerlo fermo. Quando Bongele, stanco, diminuisce il ritmo, Longange prende a calci la sua vittima e inveisce:
– Non è ancora finito. Dagli più forte!
Si direbbe che il sangue ecciti Longange.
Bakanja gemeva:
– Io muoio, pietà… Mamma, eh, io muoio… eh, mio Dio, io muoio…
Il boia sanguinario resta spietato. Bongele colpisce… 200 – 250 colpi: non può ricordare esattamente, ma le sue braccia sono stanche e non ce la fa più. Questa volta Longange è sazio.
Raccogliendo le forze il martire cerca si rialzarsi, ma ricade a terra tutto rosso di sangue. È tutto una piaga vivente. Le persone attorno lo compiangono e si lamentano. Bakanja geme:
– Il bianco mi ha ucciso con una chicote!
Non voleva che pregassi Dio… Mi ha ucciso perché dicevo le preghiere… Io non gli ho rubato nulla… È perché pregavo Dio.
Longange ordina di mettere la vittima in prigione. La prigione dell’azienda non era altro che il luogo dove si affumicava il caucciù, e serra i suoi piedi in anelli di ferro perché non potesse fuggire e denunciare il fatto alle autorità.
Con le catene ai piedi
Nella prigione, dove anche altri sono incatenati, Bakanja, con le caviglie serrate dal ferro, continua a salire il suo calvario. Ci resterà due o quattro giorni. Nel frattempo, Mputu e Iyongo, rispettivamente cuoco e domestico di Longange, di nascosto gli portano del cibo e lo aiutano a muoversi perché da solo non può farlo. Il supplizio di Bakanja è l’oggetto di tutti i discorsi. tutti sono sconvolti per il modo come il bianco ha flagellato un domestico del suo aiutante. Perché lui non è intervenuto?.
Bakanja stesso dirà più tardi che il suo padrone non aveva la forza di opporsi a Longange, non osava rimproverargli alcunché. Longange era il terrore dell’azienda. Veniva soprannominato «Esomb’a nkoli» (l’uomo che sferza) poiché portava sempre con sé delle liane per frustare gli operai sulla schiena; era chiamato anche «Lopoi», poiché aveva degli eccessi di collera terribili.
Su una vecchia stuoia, tutta bagnata di sangue e imbrattata di escrementi, Bakanja lotta contro la febbre che lo assale e lo spossa. Presso il giaciglio una zucca d’acqua e una scodella di riso. Bakanja non tocca affatto il cibo che i suoi amici Mputu e Iyongo gli portano all’insaputa del bianco. Egli non ha nemmeno la forza di avvicinarsi alle labbra, bruciate dalla febbre, la zucca dell’acqua. Violenti colpi di tosse, per l’acre odore di fumo che impregna la prigione, strappano ancor più le piaghe dolenti. Nella semi oscurità i topi camminano qua e là. Sui muri, ragni giganti e tarantole danno la caccia agli scarafaggi. Le zanzare attaccano. Le mani stanche del martire mal si difendono dalle loro punture. A stento riesce a tenere la croce del Rosario che ha ancora con sé, mentre le sue labbra mormorano: «Mio Dio cosa vuoi da me?. Che male ho fatto?». Un sudore freddo gli esce dai pori: «Mio Dio, non m’abbandonare!. Io non ho rubato nulla. Il bianco non voleva le mie preghiere!… ».
Intanto corre voce che è imminente l’arrivo dell’ispettore della SAB. Longange si sente a disagio. Non vorrebbe che questa storia di Bakanja arrivi alle orecchie del Sig. Grillet!
I responsabili di quella fattoria allora si consultano e stabiliscono che Lomame parta per Isoko. Bakanja, che è suo domestico, dovrà accompagnarlo e così non avrà l’occasione d’incontrare Grillet e lamentarsi con lui.
Lomame parte, come deciso; Longange allora si precipita nella prigione, toglie le catene alla sua vittima e gli ordina di raggiungere il suo padrone Lomame che è partito per Isoko.
– Bianco, obietta Bakanja, vedi bene che non posso camminare.
– Poche storie! rispose Longange. Parti e raggiungi il tuo padrone.
Isidoro si alza a fatica e parte, piegato in due dal dolore. Il suo carnefice pensava che Bakanja non avrebbe mai raggiunto Isoko. Ma, appena fuori vista, Isidoro entra nella foresta e si corica nei pressi della strada che porta al pontile di Yele.
Al fresco della sera che cala, Bakanja trema per il freddo e la febbre; e dice a se stesso: «Ah, se qualcuno potesse passare ad avvertire i miei amici!». C’è proprio qualcuno che si avvicina: è Lokwa, il pastore di Longange che ritorna dai campi.
– Lokwa, Lokwa, chiama Bakanja.
– Tu qui? rispose Lokwa.
– Chiedi a Mputu di portarmi qualcosa per coprirmi, del fuoco e un po’ di cibo.
In segreto Lokwa avvertì Mputu che si prese cura di Bakanja e lo salvò dal freddo, dalla fame e dagli insetti.
Intanto Lomame è arrivato a Isoko e attende il suo domestico, ma invano. Invia allora un messaggero per avvertire Longange dal mancato arrivo di Bakanja; questi s’agita e sospetta che Iyongo e Mputu abbiano nascosto Bakanja.
Ordina loro:
– Partite a cercare Bakanja. Quando l’avete scovato venitemi a chiamare.
Avete capito?
– Abbiamo capito!
– Non è che siete voi ad averlo nascosto? grida Longange. Se lo trovo l’ammazzo. Lo troverò anche se dovrò mettere a soqquadro il villaggio.
Ma l’arrivo di una imbarcazione a Yele obbliga Longange a sospendere le ricerche.
L’aguzzino è smascherato
Sul pontile di Yele Longange crede di poter accogliere il suo amico Grillet, si trova invece a dover salutare un altro ispettore, Dörpinghaus, chiamato Potama. Al pontile c’è anche, insieme a tanta altra gente, Iyongo. L’arrivo di una imbarcazione è sempre motivo di festa. I ragazzi corrono da una parte all’altra. Le donne spuntano da ogni parte con i loro fagotti pieni di radice di manioca, di patate dolci, di banane e danno subito vita al mercato. Lo sguardo imperioso di Longange si posa su Iyongo che sta godendosi lo spettacolo e gli ordina di correre subito a Ikili per preparare il pranzo all’ispettore appena arrivato. Bakanja, dal luogo dove si era rifugiato, ha sentito la sirena del battello ed ha capito dell’arrivo dell’ispettore; fa capolino tra i cespugli, vede Iyongo correre verso Ikili, lo chiama e s’informa:
– È arrivato Bongende (Grillet)?
– Non Bongende, ma Patoma (Dörpinghaus), rispose Iyongo. Ma com’è che tu non sei a Isoko?.
– Come posso arrivare a Isoko, non posso camminare! Longange mi ha dato quest’ordine per farmi morire lungo la strada; io voglio vivere. Mi sono fermato qui; la foresta mi proteggerà. Solo Dio sa se riuscirò a vivere con tutte queste ferite.
Sentendo venire gente lungo la strada Iyongo supplica Bakanja di nascondersi:
– Stai attento Bakanja!. Arriva Longange e Potama, non farti vedere. Quando Potama rifarà questa strada per riprendere il battello, allora fatti vedere da lui, non ora!
Dopo il pranzo Potama si congeda da Longange. Non può trattenersi, deve proseguire il suo viaggio. Lo riaccompagna al battello Lokwa, il pastore, portando sulle spalle una mezza capra che Longange ha offerto al suo ospite.
Quando furono vicino al luogo dove Bakanja si nascondeva, questi sbucò fuori dalla foresta… Ecco come Dörpinghaus descrive l’incontro:
«Stavo ritornando al battello quando sentii lungo la strada una voce che chiedeva aiuto. Vidi uscire dalla foresta un uomo con il dorso scavato da piaghe profonde purulente e fetide, coperte di sporcizia, assalite da mosche; s’appoggiava su due bastoni per avvicinarsi a me, non camminava: si trascinava. Ho pensato subito che si trattasse ancora di una malefatta di uno dei nostri agenti. Domando a quel disgraziato: Cosa hai combinato per meritare una tale punizione? Mi risponde che era un cristiano della Missione Cattolica dei Trappisti di Bamanya e voleva convertire gli operai dall’azienda; questo era il motivi per cui il bianco l’aveva fatto flagellare con una dura chicote munita di chiodi appuntiti».
Patoma mandò a chiamare Longange. Questi, appena conosciuto il fatto, furioso, chiamò la sua sentinella Iseboya, che stava appunto tornando da caccia con il suo «Albini», il fucile. Gli disse:
– Iseboya, riporta immediatamente Bakanja qui. Se non vuol venire, ammazzalo!
Vedendo arrivare Iseboya con il fucile, Patoma intuì le intenzioni di Longange. Gli sbarrò la strada e gli disse:
– Dove vai con questo fucile? Pensi che quest’uomo sia una bestia?
– Vado cercando un cinghiale! rispose Iseboya.
– Guarda! esclamò Potama, questo è un cinghiale?. Non è più un uomo?
– Io non l’ammazzo! riprese Iseboya. Il mio padrone mi ha comandato di riportarglielo.
Durante queste battute arrivò Longange e colpì Bakanja al viso. Potama lo trattenne. Longange allora vomitò tutto il suo veleno:
– Così tu te la fai con un altro bianco, gli racconti cosa faccio io… Qui a Ikili, sono solo io a comandare!
Scoppiò una lunga discussione tra i due bianchi. Cosa si sono detti? Nessuno dei presenti lo ha potuto capire parlavano la loro lingua. Poi Potama comandò a due dei suoi uomini di trasportare Bakanja sul battello diretto a Isongu dove l’aspettava Grillet.
È palese che i modi inumani di Longange non erano condivisi dalla Direzione Generale della SAB. Nello spazio di un mese Longange dovette far bagagli e lasciare non solo Ikili ma anche il posto nella Società.
Una lettera del Sig. Stronk dice:
«All’inizio di febbraio 1909 ero nella piantagione di Botako e fui chiamato a Ngomb’Isongu, sul fiume Lomela, per rimpiazzare Van Cauter (Longange) a Ikili. Dall’ispettore commerciale, il Sig. Grillet e dall’ispettore della piantagione il Sig. Dörpinghaus, seppi che Van Cauter doveva lasciare la nostra Società per mettersi a disposizione della giustizia. Il motivo era che aveva inflitto una punizione brutale ad un operaio della sua fattoria senza serie ragioni, ma soprattutto, come Dörpinghaus me l’ha confermato, per dare sfogo al suo odio diabolico contro la religione cattolica, poiché questo tale Bakanja ne era fervente propagatore tra gli operai e li preparava a ricevere il battesimo».
Il perdono cristiano
Bakanja non nutre odio nel suo cuore. Promette a P. Giorgio, che si recò al suo capezzale, che avrebbe pregato per quel bianco che l’aveva crudelmente fatto flagellare.
– Non nutro rancore contro il bianco.
Mi ha percosso… è affare suo, non mio! …
– Se morirò pregherò molto per lui dal cielo!
Bakanja, sopra il battello del suo salvatore, viene curato come si può. Il suo stato è grave. La carne viva delle ferite è infetta e s’intravedono le ossa. Il 9 marzo il battello attracca a Ngonmb’Isongu, Potama riferisce tutto a Grillet e gli mostra l’atrocità di Longange. Grillet deve agire; questo incidente violento a Ikili non può passare sotto silenzio. Bakanja viene consegnato a Isengakoi. Ogni giorno il figlio più piccolo procura per Bakanja il pesce, il riso, la manioca. Un altro adolescente gli cuoce il pasto, lo lava, gli fa compagnia. Un bianco, il Sig. Dufourd, capo geometra, cerca di bloccargli l’infezione che sembra camminare ogni giorno di più. Tutti ormai conoscono la storia di Bakanja, sanno che è un cristiano e lo vedono pregare senza interruzione.
Qui la religione cattolica è qualcosa di sconosciuto e la gente si domanda: «Chi dà forza a Bakanja di sopportare tanto dolore?. Quale Dio prega con tanto ardore e perseveranza?».
I cuori di questa gente sono come un campo fertile che le sofferenze di Bakanja semineranno. In effetti, un anno dopo, il catechista Bakombo Joseph, troverà in questa regione, che ha visto il martirio di Bakanja, una popolazione pronta ad accogliere la Buona Novella di Gesù.
All’inizio di giugno, vedendo che la situazione del ferito non fa che peggiorare, Dufourd l’imbarca per Busira; qui Bakanja trova suo cugino Boya, falegname presso la SAB, che in un primo tempo lo accoglie; poi cerca di liberarsene e lo manda presso un tale Bontamba.
Perché questo?. È spaventato delle cure che deve prodigare ad Isidoro?. Non ha nessuno per assisterlo mentre lui è al lavoro?. Il catechista Antonio Loleka non è d’accordo con il comportamento di Boya. Chi soffre vede decuplicarsi le sofferenze quando si sente rigettato anche dai suoi. Loleka rammenta a Boya che, allontanando Bakanja, non rispetta le usanze e che non può lasciarlo morire, costi quel che costi, in casa altrui.
Insieme Boya e Loleka affidano Bakanja alle cure di una donna, Bolangi, che abita di fronte al catechista Loleka. È qui che il 24 e il 25 luglio Bakanja ha la gioia di ricevere la visita di due missionari, i Padri Gregorio Kaptein e Giorgio Dubrulle in visita pastorale in questa regione, la più lontana della missione. Bakanja può confessarsi, ricevere l’unzione degli infermi e soprattutto ricevere nel cuore Gesù, che come lui fu flagellato.
Nella conversazione Bakanja narra il motivo della flagellazione. Il Padre Giorgio gli domanda:
– Isidoro perché il bianco ti ha percosso?
– Perché non amava i cristiani!… Non voleva che io portassi l’abito della Madonna, lo Scapolare del Carmine!… Mi sgridava quando dicevo le preghiere!…
Quando P. Giorgio cerca di confortarlo in mezzo alle sofferenze, Bakanja ripete il suo fiat, la sua piena adesione alla volontà di Dio: «Non è nulla se muoio! Se Dio vuole che viva, vivrò, Se Dio vuole che muoia, morirò. Per me è la stessa cosa!».
Il Padre Giorgio vuole esortare Bakanja a non nutrire rancore nel cuore, a perdonare al bianco che lo ha crudelmente frustato, a pregare anche per lui, a rispondere con il bene al male. Isidoro gli risponde:
– Non sono adirato contro il bianco…
Mi ha percosso, è affare suo, non mio!
Isidoro non si appella alla giustizia, non chiede riparazione. Quando il P. Giorgio gli dice che dal cielo dovrà pregare per il suo carnefice, risponde:
– Si, se morirò, pregherò per lui dal cielo.
Martire a vent’anni
Non è certamente detto con i fiori!
Rinnegare se stessi, prendere la croce non sono state parole vane per Gesù mentre i nemici lo conducevano al supplizio della croce come un agnello da macello.
Non sono state parole vane per i primi martiri cristiani che offrirono i propri corpi alle torture dei carnefici. Non sono parole vane per Bakanja che soffre nella sua carne putrefatta e nelle sue ossa messe a nudo.
Partito il P. Giorgio, il catechista Loleka trasferì Isidoro in casa sua per essere più facilmente curato dalla moglie.
Il 15 agosto 1909 i fedeli si raccolsero davanti alla casa del catechista per ascoltare la Parola di Dio e per pregare; anche Isidoro si unì al gruppo orante. Ha potuto unire la sua preghiera a quella dei cristiani e dei catecumeni, venuti a pregare soprattutto Maria in questo giorno a lei dedicato.
Bakanja è orgoglioso di vedere spuntare e crescere nel cuore dei suoi fratelli neri la Parola di Dio. Con meraviglia di quanti lo consideravano già moribondo, Bakanja si alzò, con il Rosario nelle dita, camminò un momento in silenzio, poi rimessosi a letto entrò in agonia e poco dopo rese la sua bell’anima a Dio nel giorno dell’Assunzione di Maria Santissima al cielo. Aveva appena vent’anni.
Isidoro Bakanja morì con lo Scapolare di Nostra Signora del Monte Carmelo appeso al collo e con il Rosario stretto tra le mani. Così, senza rumore, tale come era vissuto. Bakanja Isidoro partì per incontrare Colui che lo aveva chiamato, Colui che appena tre anni prima lo aveva inviato come agnello in mezzo ai lupi, Colui che Isidoro aveva servito con inflessibile fedeltà. Isidoro è morto come è vissuto: pregando.
Abbandonato a se stesso l’uomo è incapace di poter perdere serenamente la vita, incapace di vedere nella morte una liberazione, una nuova nascita. Nella preghiera e nella fedeltà, Bakanja ha capito il senso della vita e quello della morte. Cosa può accadergli se non quanto è accaduto al suo Maestro, il Cristo, che dopo la sua passione e morte, risorge e partecipa della gloria del Padre?.
Bakanja non c’è più. Il tam tam risuona per tutta la notte. Cristiani, catecumeni ed anche i non credenti si rammaricano, piangono, cantano, pregano e vegliano. In mezzo a loro Bakanja riposa, il Rosario intrecciato nelle mani giunte, lo Scapolare della Madonna attorno al collo. Così i suoi amici lo hanno sepolto nel cimitero di Busira, vicino alla piantagione.
Quando più tardi, nel 1917, i missionari fondarono l’importante missione di Bokote, non mancarono di portare con loro le spoglie di Bakanja, che seppellirono con venerazione nel cimitero della missione, dove i cristiani ancora oggi venerano la sua tomba. Lì riposa in attesa della risurrezione.
Bakanja martire nostro. Tre parole che riassumono la vita esemplare di questo semplice domestico che Dio ha scelto perché divenisse seme per nuovi cristiani nella terra dello Zaïre. San Giovanni Paolo II lo proclama martire il 24 aprile 1994.